Il racconto della scienza può avere tante forme: può essere racconto di una scoperta o di un’impresa scientifica, delle persone che l’hanno ideata e che vi hanno dedicato anni di impegno e passione, o ancora degli strumenti, degli esperimenti, delle immagini. Dal 2015 il Premio Asimov, che vede l’INFN fra i suoi principali sostenitori, viene assegnato ai libri che raccontano la scienza in tutte le sue sfaccettature. Le opere di divulgazione e di saggistica scientifica in gara vengono valutate da studenti e studentesse delle scuole superiori di tutta Italia, che leggono, recensiscono e votano i libri, e vengono a loro volta premiati per le migliori recensioni.
L’edizione 2022 ha visto sul podio due vincitrici ex-aequo: Agnese Collino, biologa e divulgatrice scientifica, con La malattia da 10 centesimi. Storia della polio e di come ha cambiato la nostra società e Licia Troisi, astrofisica e scrittrice, con La sfrontata bellezza del cosmo. Un viaggio tra i misteri dell’Universo attraverso le immagini dell’invisibile. Le abbiamo intervistate per esplorare il rapporto tra scienza e scrittura.
Vi accomuna l’aver lavorato come ricercatrici: come è avvenuto il passaggio dal fare scienza allo scrivere di scienza?
LT: Io ho cominciato facendo la scrittrice di narrativa, ma al contempo ho fatto la ricercatrice per dieci anni. A un certo punto le due professioni sono diventate inconciliabili, e nel 2014 ho lasciato la ricerca per la scrittura, ma mi è sembrato abbastanza naturale mantenere un contatto con la scienza tramite la divulgazione.
AC: Intorno al 2013, da ricercatrice, ho iniziato a fare divulgazione parlando di quello che facevo in laboratorio. In seguito, ho scelto di fare un master in comunicazione della scienza, durante il quale ho imparato anche la pratica della scrittura, ma non è mai stata la mia attività principale, fino a che non è arrivato questo libro. È stato veramente un caso fortuito: mi sono accorta che la storia della poliomielite non era stata raccontata molto in Italia, e alcune persone del mestiere mi hanno incoraggiato a portare avanti l’idea. La voce è arrivata subito a Codice Edizioni che mi ha chiesto una proposta strutturata. Ho sempre pensato che scrivere un libro fosse una cosa difficilissima, per geni o quasi, e quindi mai avrei pensato di scriverne uno. Mi sono trovata un po’ alle strette, ma mi sono messa la prova ed è andata bene: magari non avrei mai scritto questa storia, per fortuna c’è stato qualcuno che ha saputo guardare alla mia idea in prospettiva.
La vostra formazione nel campo della ricerca ha influito nella scelta degli argomenti e nelle modalità in cui li avete raccontati?
LT: Per me è stato utile aver fatto divulgazione, da studentessa universitaria, con il gruppo di divulgazione dell’Osservatorio astronomico di Roma. Nel rapporto diretto con il pubblico, a differenza di quanto accade con un libro, hai modo di vedere immediatamente se le persone ti stanno seguendo oppure no. Anche se la scrittura segue logiche diverse, il contatto con le persone mi ha aiutata a capire da dove partire, quali sono le conoscenze comuni su cui ci si può appoggiare per spiegare anche i concetti più complicati.
AC: Oltre all’esperienza nella divulgazione, mi ha aiutato anche il mio percorso nella ricerca. Nel mio libro infatti ho raccontato spesso il lato umano dei ricercatori, tutti gli incidenti di percorso, gli errori, gli sgarri che ci si faceva a vicenda. Dall’esterno si può avere un’idea stereotipata, quasi bidimensionale, del ricercatore, come se fosse esente da queste dinamiche. Invece così non è, ed è un elemento che in parte manca nel racconto della ricerca. Averne fatto esperienza diretta mi aiutato sia a non stupirmene quando mi imbattevo in questi episodi nella fase di ricerca per il libro, sia a metterlo in luce in fase di scrittura.
Qual è la chiave di lettura che avete scelto nel raccontare idee e vicende scientifiche?
LT: Scrivere un libro di narrativa è molto diverso rispetto a scrivere un libro di divulgazione, quindi ho dovuto imparare. Tuttavia, sono sempre stata molto portata al racconto e alla fruizione di storie, perciò ho conservato questo mio tratto distintivo scrivendo libri di divulgazione che sono sempre un insieme di storie. Il primo (Dove va a finire il cielo, Mondadori, 2015, NdR) intrecciava la storia di alcune ricercatrici e ricercatori in astrofisica alla mia storia personale, come studentessa e come ricercatrice. In quest’ultimo libro, invece, la storia di alcune immagini del cielo si lega al racconto di come è cambiato il nostro rapporto con l’universo attraverso lo sviluppo di strumenti di osservazione via via sempre più raffinati.
AC: Sono stata forse favorita dal fatto che, mentre stavo scrivendo questo libro, era appena scoppiata la pandemia da CoViD-19: nei documenti che stavo studiando per prepararmi a scrivere il libro, rivedevo alcune delle reazioni che si stavano manifestando al diffondersi della pandemia, sia da parte degli esperti che da parte dei cittadini. Questa circostanza mi ha agevolato nel capire quali fossero le questioni su cui porre l’accento, insieme a due domande fondamentali che mi hanno accompagnato nel processo di scrittura: se fossi un lettore, come mi piacerebbe che questa storia fosse raccontata? E come aiutare il lettore a percepire la bellezza che c’è in questa storia?
La ricerca scientifica può dialogare in qualche modo con l’espressione artistica e con i suoi elementi caratterizzanti, come la bellezza?
LT: Credo che ci sia una unione tra discipline umanistiche e scientifiche, e che risieda nell’immaginazione e nella creatività. Spesso la scienza viene percepita come un qualcosa di preciso che segue delle regole strettissime, ma l’elemento creativo è fondamentale per la ricerca. Anche la bellezza attiene ad entrambi gli ambiti, ma talvolta è una bellezza di tipo diverso: non c’è soltanto la bellezza estetica, c’è la bellezza del meccanismo e l’eleganza della teoria.
AC: L’uomo da sempre ha preso spunto per le sue opere d’arte dalla natura, e quando due mondi si contaminano a vicenda, non possono che nascere cose belle. Non necessariamente di una bellezza visibile: c’è bellezza anche in un concetto che viene trasmesso, anche in un nuovo esperimento così lineare, così semplice che ci avrebbe potuto pensare chiunque, ma a cui non aveva pensato nessuno prima. Tanto per l’arte che per la scienza, si tratta sempre di usare l’ingegno per esprimere un punto di vista singolare, personale.
Scrivere di scienza può contribuire a favorire una percezione positiva della scienza e accrescerne l’impatto sulla società?
LT: La ricerca è una cosa che praticano poche persone, ma che ha delle ricadute in tutti i campi. Per questo, la divulgazione scientifica ha un ruolo fondamentale nel far comprendere non solo che cos’è la scienza, ma anche che è fatta dalle persone e che ha un suo metodo certamente molto efficace, e per questo non è perfetta, ha anzi tutti i difetti delle attività umane. È cruciale poi che la divulgazione stimoli la curiosità ancor più che dare informazioni e nozioni: le nozioni tendono a sparire, la curiosità che le storie e le scoperte scientifiche ti hanno instillato dentro è qualcosa che rimane, che ti spinge ad approfondire ulteriormente. Ed è rilevante anche in prospettiva: la divulgazione può essere uno strumento per la formazione di una nuova generazione di scienziati.
AC: Scrivere e parlare di scienza è utile a dare strumenti e fornire stimoli, più che a fornire risposte, e raccontare il processo scientifico permette di capire quali risposte ci si può aspettare e quali sono invece difficili da ottenere. Parlare di scienza fa capire che siamo effettivamente sulla frontiera dell’ignoto, che è bello starci, porsi domande che magari non sempre potranno avere una risposta, e che nel farsi queste domande si partecipa a uno sforzo collettivo verso il miglioramento della conoscenza.
“Incontri” è l’appuntamento editoriale di Collisioni.infn, dedicato al dialogo con i testimoni dello scambio interculturale tra la comunità scientifica, in particolare l’INFN, e il mondo culturale nel suo insieme.